“Nessun albero prima della sacra vite tu pianterai, o Varo”
ORAZIO
Il nome è un grande specchio, bisogna osservarlo da più punti per coglierne l’essenza, a volte chinarsi, a volte guardarlo dall’alto. Si riuscirà così a trovare un riflesso che simboleggia la vita, l’uomo, le verità, gli inganni. Saper leggere un nome, qualsiasi nome, farà stare comunque un gradino più in alto nella contemplazione della storia.
Una volta osservato il nome, il processo successivo è riuscire a leggerlo. Il “leggere” è un processo intellettivo destrutturante-ristrutturante che compone quadri di rappresentazione sempre più ampi e complessi. Come si ricava dallo stesso senso etimologico del latino “legere”, implicante l’idea di tracciato o percorso lineare, il concetto di linearità si lega a quello di “discorrere, ragionare”. Anche il termine latino “intelligentia”, corrispondente al greco “logos” (ragione, intelletto) deriva da “legere” essendo composto da “inter + legere” che per assimilazione diventa “intellegere”, che indica non un processo puramente analitico-razionale bensì una sorta di intuizione della mente che permette di andare in profondità alle cose.
Non è quindi raggiungibile l’intelligenza se non si riescono a leggere le cose nel senso ampio del termine.
“Valis polis cellae”, la valle dalle molte cantine, è il nome con il quale i romani battezzano la regione dopo aver avviato la produzione e la commercializzazione dei vini. La “vitis vinifera” giunge probabilmente nell’area del Garda intorno al VII secolo a.C., portata dagli etruschi, e il vino retico conosce il suo massimo splendore nell’era di Augusto.
Con il termine “raetia” dapprima i romani indicarono un territorio compreso tra il veronese-trentino e il comasco-valtellinese. Il primo uso del termine “retico” lo troviamo proprio in riferimento al vino: è Catone il Censore (234-149 a.C.) a descriverlo come pregiato. Dall’uva retica si otteneva un vino possente, considerato da Virgilio secondo solo al celebre Falerno. Nella sua “Naturalis Historia”, Plinio fa proprio riferimento a Virgilio che “in Veroniensis iteri Retica, Falernis tantum postlata a Virgilio”, ed è generoso di dettagli sui vini retici, su come essi fossero serviti nei triclini romani dell’imperatore Tiberio Cesare esaltando la “panacea veronensis”, adatta a curare ogni male.
L’importanza del vino per i romani si evince solamente dando uno sguardo alla legione romana in marcia. Essa è divisa in manipoli. Ogni manipolo ha un uomo al comando: il centurione con la sua corazza in cuoio decorata con aquila romana, elmo in metallo dal cimiero rosso trasversale, tunica e mantello di lana, gladio alla cintola, schinieri alle gambe ma soprattutto con la mano destra il centurione impugna lui: il “vitis”, il bastone del comando. Un vero e proprio tralcio di vite, simbolo del suo potere, della sua missione in cui sia in pace che in guerra i suoi sottoposti guardano e seguono. Ci fu un momento in cui si decise che le legioni seguissero il monito di Orazio sopra citato e si stabilì che la figura chiave dell’esercito brandisse un bastone del comando materializzato dall’icona, dal simbolo della vite. E’ in questo momento che Roma passa dall’import all’export e la vite diventa simbolo del potere politico ed economico di Roma in Italia e in Europa.
A metà del XII secolo si unì tutto il comprensorio in un unico comune e comparve per la prima volta il toponimo Valpolicella , la cui origine si fa derivare da differenti ipotesi oltre a quella sopra citata: “val polesela”, un nome ritrovato in un documento di Barbarossa datato precisamente 1177 il cui significato “terreno paludoso, acquitrinoso” si riferisce alla natura alluvionale del suolo. Nel dialetto locale infatti i “poli” sono i cumuli si sabbia depositati dalle acque dell’Adige. Un’altra ipotesi invece vede il nome “Valle Policella” che secondo l’umanista Guarino Veronese significherebbe beata, dal greco “poli” (molto) e “cella” (cantina) per i suoi vini.
Un passaggio importante nella zonazione e unione della Valpolicella avvenne con l’arrivo di Napoleone dalle Alpi che segnò la caduta della Repubblica Veneta e mise le basi per l’unificazione territoriale che, nel 1872, vide la nascita della Società Enologica veronese e la costruzione delle prime cantine sociali e cooperative a Fumane e Sant’Ambrogio, valorizzando le diversità dei vini prodotti nelle diverse vallate. Nel 1881 a Milano nell’esposizione nazionale Stefano De Stefani presentò la rivista “Italia Agricola”, dividendo la Valpolicella in quattro zone:
- Vini della riviera del Lago di Garda, comprendenti i distretti di Bardolino e di Caprino
- Vini della Valpolicella
- Vini della Valpantena
- Vini dei colli di Mezzane, Illasi, Soave e Monteforte
Bisogna poi attendere il 1924 perché si costituiscano i primi consorzi, quando a San Pietro in Cariano il 9 Novembre 1924 nasce il “Consorzio per la difesa dei vini tipici della Valpolicella” e nel 1938 si definiscono le zone dei vini pregiati veronesi, divisi in sette denominazioni.
Il potere del nome Valpolicella visto sotto la lente e la prospettiva del “genius loci” riflette tutta la complessità e la bellezza di un luogo unico in cui macroambiti, clima, varietà e tecniche colturali si esprimono con un’infinità di sfaccettature.
Nei macroambiti si possono distinguere le aree collinari in cui crinali e versanti sono stati modificati dall’uomo per la coltivazione della vite e dell’ulivo. Vi sono formazioni calcaree come il biancone, la scaglia rossa e i calcari grigi. La seconda area che si riesce a distinguere è l’area di pianura alluvionale dell’Adige che comprende la parte alta a ovest della Valpolicella in cui il fiume stesso attraverso le alluvioni dei secoli ha depositato ghiaia, limo, quarzo e sabbia. La terza è l’area fondovalle dei torrenti prealpini in cui i depositi di sedimenti fini sono caratterizzati da un alto grado di calcare con dimensioni medie e fini. La tessitura del terreno è meno complessa e le pendenze sono minori.
Tutto questo per esprimere il concetto che la consapevolezza dello stretto legame che unisce il vino alla sua zona di produzione ha origini antiche, tanto che già nell’età del Bronzo un vino veniva spesso identificato con la sua zona di produzione.
Un esempio è il “Falernum”, vino famoso che si impose nella Valpantena. Fra il 1200 e il 1300 compaiono i primi esempi di protezione delle produzioni tipiche in zone determinate, come rilevabile dagli statuti cittadini e da altri decreti. Famoso è l’editto del Granducato di Toscana nel 1716 relativo alle zone di produzione del Chianti, vera e propria zonazione.
Negli ultimi anni l’OIV ha cercato di dare una definizione al concetto di “terroir” prendendo spunto dagli amici francesi che sono i detentori di tale parola. In Italia, vari studi scientifici hanno cercato di definire il segreto che lega le caratteristiche sensoriali di un vino all’origine del suolo, rimuovendo le barriere legate ai disciplinari e ponendo l’accento su argomenti tecnici piuttosto che giuridici.
Se ci allontaniamo dal concetto topografico e lo guardiamo per il significato che il “terroir” dà, ci appare come una tavola dove il “logos”, inteso come parola, si concretizza in un vino.
Come Mosè ricevette una tavola con i comandamenti (una tavola era anche l’altare del sacrificio) si può vedere il territorio viticolo come una tavola sulla quale si sancisce l’alleanza tra il produttore e il consumatore nel rigoroso rispetto delle regole e delle risorse ambientali.
La zonazione della Valpolicella non è solo un sapere culturale, ma un patto con i consumatori che rispecchia gli ambienti poliformi con la passione e l’ascolto di cosa la terra ci può dare.
A monte di tutto ciò però ci devono essere basi solide riguardo la conoscenza del territorio e della sua storia, valutando e valorizzando aspetti ambientali come ad esempio le “marogne”, le ville e le cave che sono al suo interno. Questi elementi naturali fanno parte del paesaggio e ci parlano di “terroir” attraverso lo spirito degli uomini che l’hanno abitata e colonizzata nei secoli.
Per questo motivo la zonazione della Valpolicella rappresenta il superamento della definizione di “terroir” monodimensionale, legato solo agli effetti del clima, del suolo e delle varietà sul vino, per arrivare a vedere il concetto del territorio come l’insieme dei fattori ambientali modificati dall’uomo che con la sua presenza e cultura diventa parte integrante di un mosaico in cui ogni tessera possiede la sua unicità non potendo però fare a meno di tutte le altre per generare infinita bellezza.
dott. Ciro Fontanesi, Docente e Coordinatore ALMA Wine Academy