Il tuo percorso di avvicinamento al vino e alla degustazione?
Ho iniziato a scrivere mentre frequentavo la facoltà di medicina all’università di Parma. Scrivevo un po’ di tutto, dall’informazione farmaceutica per una piccola casa editrice milanese e poi, più diffusamente, su quelle che da sempre sono le mie passioni: il cinema, il teatro, la musica e le materie umanistiche in genere. In seguito questa piccola casa editrice ha iniziato a pubblicare “Malpensa Express”, una rivista distribuita nei treni che dalla stazione di Cadorna a Milano arrivavano fino al neonato aeroporto di Malpensa. Sapevano della mia passione per la tavola e mi chiesero di scrivere alcuni pezzi di enogastronomia che avessero come costante le produzioni lombarde. Per me devoto di Veronelli fu una grande soddisfazione. E’ iniziata così! Poco dopo, nel 2003, Andrea Grignaffini, il direttore creativo di un periodico di settore ancora in gestazione, “Spirito diVino”, mi chiese di occuparmi stabilmente del racconto e della degustazione dei vini. Ho abbandonato Medicina e mi sono iscritto alla facoltà di Enologia a Milano che poi negli anni ho concluso. E questo mi ha permesso di coltivare anche un approccio scientifico al vino e di non indulgere troppo nella parte umanistica e narrativa. Vivevo in quegli anni tra Milano e Parma dove ho iniziato a collaborare con Giovanni Maestri dell’Enoteca Ombre Rosse e con Guido Cerioni e Mariella Gennari della Locanda Mariella, contribuendo con loro alla nascita di un locale a Parma unico nel suo genere, HiFi News Musica da Tavola, rivendita di vini e impianti di alta fedeltà, di insuperabile qualità artigiana. La Locanda Mariella, è tra l’altro un’osteria tra le più rinomate d’Italia per la ricerca delle materie prime e la passione. Un’oasi di cultura della tavola abbarbicata sull’appennino della Cisa. Un posto speciale al quale sono ancora molto legato e dove ho iniziato ad esprimermi. All’epoca, fondamentalmente mi occupavo delle degustazioni, scrivevo le presentazioni, disegnavo le mappe dei luoghi, iniziavo a dire qualcosa davanti ad una platea… In seguito, ho lavorato per dieci anni alla Guida dei vini de L’Espresso dove si valutava il vino con schede a punti di venti ventesimi.
L’hai mai incontrato il vino da venti ventesimi?
Io i 20/20 li ho dati. Più volte. Tra questi il Barbaresco Crichet Paje di Roagna annata 1999 che credo riconfermerei e poi il Trebbiano di Valentini annata 2008. Ma parlare di vini eccelsi mi da l’occasione di ricordare Beppe Rinaldi, un grande barolista mancato in questi giorni. Una persona alla quale ero molto legato. Ho imparato di più chiacchierando in cantina con lui, diventando in parte suo amico, che non in tanti super corsi. Forse proprio per questa mia estrazione umanistica. Si parlava molto di arte e di musica, una passione in comune. Io suono la tromba e si parlava molto di jazz. Mi fa piacere dire che uno dei vini che mi ha cambiato la vita è stato un Barolo Brunate – Le Coste dell’annata 1997. E il 1998 era ancora meglio e mi ha dato per la prima volta l’idea di avere sul palato un vino con più dimensioni e in grado di garantire stimoli sensoriali nuovi e diversi da tanti altri assaggiati fino ad allora.
Degusti tutti i giorni? Ci si allena alla degustazione e fino a che punto?
Degusto praticamente tutti i giorni. Quando insegno ad esempio. Alla scuola Alma di Colorno o all’università, mi capita di degustare e raccontare 6, 8, 10 vini a lezione ed è una condizione che mi risulta piuttosto agevole. Poi però ci sono situazioni in cui devo degustare 50, 80, 100 vini in una mattinata e ovviamente bisogna essere preparati sia mentalmente che fisicamente. Ho un mio schema. Devi andare a letto presto, devi svegliarti bene, mangiare le cose giuste. Devi fare la vita da professionista, direi quasi da atleta, anche se potrebbe far sorridere. Entrano anche in campo delle scaramanzie, delle abitudini alle quali non riesci più a fare a meno. Gestualità e ritualità che sono parte di un’organizzazione mentale e fisica appropriata della giornata prima della degustazione. Uno schema da seguire per sentirmi a mio agio. La degustazione è per me concentrazione e libertà di pensiero. Si tratta di lettura, interpretazione, traduzione. Occorre rigore ma anche creatività”.
Anche solitudine?
“Anche solitudine se si tratta di valutazioni per una guida. Allora la degustazione è per me solitudine, indipendenza di giudizio, presa di posizione. La degustazione in panel ritengo che tenda ad appiattire parzialmente le interpretazioni. Alla fine di una serie di assaggi puoi poi discuterne con qualcun altro e ci può essere un confronto. Ma nell’atto è bene essere isolati. Invece, fuori dalla professione, confesso che non riesco a bere il vino da solo. Mai.”.
Il tuo rapporto con le bollicine? Con lo Champagne? Come si confronta con il top italiano del metodo classico?
“Il mio rapporto con le bollicine si è formato nel tempo. E’ una sfida ancora più ardua per un degustatore. Per la guida de l’Espresso ho curato per diverso tempo un territorio spumantistico come la Franciacorta. Una delle degustazioni che mi creavano più apprensione era certamente quella degli spumanti. Si aggiunge un’ulteriore dimensione all’assaggio, la carbonica che accentua alcune caratteristiche gustative. E poi la degustazione degli spumanti è molto direttamente condizionata dalla temperatura di servizio. E allora deve funzionare bene non solo il degustatore ma anche il servizio. Quindi una complicazione maggiore. Assaggiavo meno bollicine in una mattinata di quanto non potessi fare nell’assaggio di bianchi fermi o rossi fermi proprio perché avevo più necessità di concentrarmi tra un bicchiere e l’altro. Detto questo vorrei sottolineare che vivo a Parma. E in questo territorio sono circondato da distributori e importatori di Champagne oltre ad esserci un consumo ed un’attenzione per lo Champagne storicamente molto forti. Dalle Maison più grandi e le cuvee più prestigiose fino ai più piccoli produttori di nicchia ho avuto il privilegio di conoscerli, comprarli e assaggiarli un po’ tutti. Penso che nessun pasto che si rispetti, e dove si voglia anche celebrare il convivio, non possa che partire da un vino con le bollicine. E preferibilmente, per me, uno champagne. Poi adoro i rifermentati in bottiglia e gli ancestrali che provengono dal Veneto e dall’Emilia e apprezzo tantissimo diversi spumanti trentini e franciacortini. Ma che la produzione italiana sia avvicinabile o paragonabile a quella della Champagne è un cruccio tutto italiano che supererei. Lo Champagne è un riferimento per tutto: storia, terroir, interpreti, numeri… rimane lì, a parte, irraggiungibile anche dalle vette più alte della spumantistica nostrana che sono comunque di ottima qualità e di levatura internazionale. Ma sono altra cosa per tanti motivi”.
La sua serata si intitola “Champagne in Rosa”. Come mai questa scelta?
“Ho scelto di raccontare gli “Champagne in Rosa” come scelta tecnica in quanto lo champagne rosé vive su attenzioni tecniche tutte sue molto interessanti da esplorare. Ma la cosa più attraente dal mio punto di vista era percorrere il ruolo della donna nello Champagne che è formidabile e fondamentale. La vedova Cliquot Ponsardin e la vedova Pommery, madame Bollinger, altre ancora fino ai giorni nostri, sono figure imprescindibili nella storia dello champagne . E quindi questa serata vorrebbe essere un omaggio alle donne e alle donne dello champagne. Nel linguaggio enologico si usa ancora sovente il termine femminile per definire quei vini più semplici, morbidi, setosi ed affabili. Si usa invece il termine maschile per definire i vini più spigolosi, duri, arcigni, strutturati. E’ un approccio che non considero, lo trovo superato e lo rigetto. La donna dello Champagne è riuscita ad esprimere talento, indole imprenditoriale ed intuito, superando la presenza ingombrante, invadente e per certi aspetti misogina che non di rado è caratteristica precipua del maschio anche nel mondo del vino. Vorrei che fosse una serata così: in rosa nel senso più ampio del termine”.